CON IMMUTATA CONVINZIONE
per voce recitante, due violoncelli, quattro violoncelli "in eco" e elettronica su un testo di Giulia Binando Melis / for acting voice, two cellos, four cellos "in echo" and electronics on a text by Giulia Binando Melis (2025)
Commissioned by EstOvest Festival - Torino
EDIZIONI SZ SUGAR - MILANO
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note libereChe cos'è un essere umano in rivolta?
È qualcuno che dice no. Che dice: è abbastanza. Il limite è stato superato. Fino qui, sì, oltre, no. Anzi, fino qui: no.
Perché il no ha una potenza retroattiva. Tutto ciò che è stato accettato in precedenza, è già diventato inaccettabile.

Era una vecchia stalla. Sopra, dove c'era il fienile, avevamo messo due brande: dormivamo io e il nostro amico. Una notte abbiamo sentito dei rumori, spari, però siamo rimasti dentro, con le luci spente - per non far notare. Quando sono uscito era passato un po' di tempo. Ho aperto piano la porta, per guardar fuori, e ho visto la piazza. Piovigginava. Era bagnato, c'erano delle pozzanghere. E c'era questo ragazzo, un ragazzone, per terra, così, proprio sotto un lampioncino, e di fianco c'era 'sto cagnolino che leccava il sangue. Ecco, quello mi ha proprio fatto capire che non era più uno scherzo.
Quel ragazzo, stava solo andando in giro. Non si sapeva neanche da dove venisse, era solo uno che non aveva i documenti, non aveva niente. Non abbiamo mai saputo da dove venisse.

Che cos'è un essere umano in rivolta? È qualcuno che dice: sì. Che dice: esistono cose che devono essere custodite. Perché, nel momento in cui si stabilisce un confine, si afferma anche tutto ciò che quel confine conserva e protegge. Ci sono azioni che io non posso compiere, e con pari forza, ci sono azioni che voi non potete compiere, né avete il diritto di impormi.
Ed ecco che la rivolta supera il singolo, lo strappa alla sua presunta solitudine e istituisce un valore comune. Possiamo riconoscere in questo valore ciò che nell'essere umano resiste a ogni forma di riduzione o annientamento.

La resistenza non si manifesta solo nella grande rivoluzione, ma si gioca, da principio, nei gesti minimi. In atti quotidiani di disobbedienza, di dislocazione, di reinvenzione di sé.
Il pettegolezzo, il rumore e i mormorii, il colpo di tosse, il fischio, le battute fuori luogo, i doppi sensi, le metafore e i trucchi linguistici, l'accenno, il volume della voce, il tono della voce, il ritmo, il canto, la danza, l'eco, la domanda.
La responsabilità non è soltanto fare il bene o opporsi al male, ma interrogare le condizioni che rendono possibile ciò che chiamiamo normalità.
Non alzarsi in piedi, non mettersi a sedere, cambiare posto, cambiare discorso, ridere, non ridere, la smorfia, il sopracciglio, rimanere immobili, correre, andare lentamente, non rispondere, camminare, fingere di dormire, fingere ignoranza, dire il minimo indispensabile, dare il minimo contributo, perdere tempo, sbagliare apposta, arrivare in ritardo, giurare per finta, trattenere il fiato.
Prendere spazio come reazione spontanea, progressivamente riempire dove non è sorvegliato; come radici e foglie in vegetale occupazione, la nostra, una milizia naturale. Generare comunità, attivare lo scambio, il passaparola, le firme, l'anonimato, la clandestinità, disertare, restare, creare il codice, vedere la traccia e il simbolo, spogliarsi, coprirsi, desiderare, costruire la memoria, ascoltare l'altra storia, tramandare i nomi ripetuti.
Il rifiuto di immaginare un futuro che prescinda dalla forza della nostra indignazione e dalla tenerezza del nostro amore.

Il 25 aprile siamo andati in piazza perché era il giorno della Liberazione, e ci ritrovava insieme: eran diventati tutti antifascisti. Me lo ricordo molto bene, non c'era più un fascista. Quelli che incontravo mi dicevano “Siamo antifascisti! Siamo antifascisti!”, e io mi ero anche divertita a vedere come la paura fa cambiare idea spesso.

Il volto orribile è stato frantumato, morto, eppure tenace si riflette nel mio specchio; la casa è infestata.
Ma i fantasmi c'incontrano vivi, ché nei corpi resta immutata la lotta, difende per istinto e attacca con memoria, ricorda le parole e le utilizza, seppur disordinatamente ma con animo saldo: nel secolo dell'inganno, l'onestà più scomposta è sempre preferibile alla manipolazione più sofisticata.

Vogliamo una società in cui ogni persona abbia, sin dal principio, pari condizioni e dunque eguale diritto al possibile. Una società in cui la maggioranza della popolazione non viva in condizioni indegne a vantaggio di una piccola minoranza privilegiata.
Quando questo accadrà, non troveremo la felicità - che è un'altra questione -, ma piuttosto le condizioni necessarie affinché ogni persona possa essere pienamente responsabile di questa sua felicità.

La sua mano si è posata sulla mia mentre il suo sguardo mi faceva chiaramente segno di avvicinare l'orecchio alla sua bocca. Ha pronunciato allora distintamente, benché con estrema lentezza, queste parole che sono certo di riferire con la massima esattezza: «Che cosa importa? Tutto è grazia».
Credo che sia morto quasi subito dopo.
Dove non tutto è bene, addirittura dove tutto è male, allora tutto è grazia - e la grazia, attenzione, non è il bene, è invece quella forza benevolente che s'insinua là dove il male è ancora in atto. S'inoltra, avanza, e finalmente ci conduce oltre ciò che resterà per sempre irrisolto.

Riconoscere il male come atto di giustizia e resistere, insieme, come atto di onestà. E prima: scucire il callo dell'indifferenza, ed essere capaci di soffrire la vergogna e lo scandalo di chi viene ferito là dove nasce il senso.

Provare gioia nell'esser vivi, e prima: nell'esser vita, ovunque si manifesti.


Giulia Binando Melis


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